L'ho scritto la scorsa primavera, quasi di getto. Qualcuno lo ha già letto a puntate. Ora si può (ri)leggere tutto di seguito. Solo su Kindle Amazon. E solo per due giorni è gratuito.
Quattro persone uccise durante la stessa mattinata, quattro lettere lasciate sui corpi, una per ciascun cadavere. Cosa c'è sotto? Cosa lega le vittime? Cosa significano le lettere?
Tocca indagare all'ispettore Simona Calabria. Incalzata dai superiori, dovrà districarsi con il collega Franchi tra testimonianze e indizi. Alla ricerca del significato delle lettere.
Buona lettura!
martedì 17 dicembre 2013
venerdì 13 dicembre 2013
Destinazione lettura
La notizia è di quelle che fanno pensare: bé, ogni tanto
qualcosa di buono e intelligente. Il consiglio dei ministri ha approvato il
piano “destinazione Italia” composto, a quanto ho capito, da un decreto legge e
un disegno di legge, che contiene anche la possibilità di detrarre per gli anni
d’imposta 2014, 2015 e 2016 il 19% della spesa per libri cartacei, di qualunque
genere, dai testi universitari ai libri di cucina della Parodi, fino a una
spesa massima di 2.000 euro, di cui 1.000 per testi universitari e 1.000 per
altre pubblicazioni
Una misura per incentivare la lettura, visto che
notoriamente in Italia è più la gente che scrive di quella che legge, e per
dare ossigeno alle librerie non appartenenti alle grandi catene.
Intanto bisogna vedere se arriverà in porto, d’accordo. Però
è un segnale che a chi ama la lettura non può che fare piacere. Dedicato a chi
diceva che con la cultura non si mangia. Almeno ci si scarica qualcosa,
fiscalmente parlando.
mercoledì 11 dicembre 2013
William Friedkin, vita e cinema tra luci e ombre
E’ veramente interessante l’autobiografia di William
Friedkin, geniaccio del cinema americano, sinteticamente individuato come “il
regista de L’Esorcista”. La lettura è piacevole, non solo per chi cerca nelle
autobiografie il racconto di vari aneddoti, veri o ricamati che siano, ma anche
per il contenuto di questi aneddoti. Ne emerge l’autoritratto di un uomo a suo
modo straordinario, che ha iniziato a fare cinema entrando dalla porta
sbagliata ad un colloquio di lavoro, ha sfruttato le occasioni che gli si sono
presentate e non ha rifiutato di metterci del suo, a qualunque rischio. Per
credere basta leggere quando racconta di essere entrato in una gabbia di leoni
o di avere corso su un prototipo a 400 km/h, il tutto per riprendere “dal vero”
gli oggetti dei suoi documentari (la prima fase della sua carriera).
Ed è interessante anche perché ammette le sue debolezze, i
suoi fallimenti (che ha conosciuto eccome), i suoi limiti. Un’esistenza
professionale tra buio e luce, appunto. Professionale, perché come scrive in
premessa non si sofferma sugli aspetti personali. Che è poi quello che
interessa a chi legge l’autobiografia di un regista, anche perché alcuni
aspetti personali emergono comunque; questo consente di concentrarci sui suoi
film. Tra questi, WF dedica ampio spazio a tre: Il braccio violento della legge
(perché è stato il suo primo trionfo, oltre che il primo film dopo tre
documentari senza successo), l’Esorcista (perché…lo sappiamo tutti) e Il salario della paura (perché è stato un flop clamoroso subito dopo l’apice dell’Esorcista).
E via così citando, in misura minore, la lavorazione dei
successivi Cruising, Vivere e morire a Los Angeles, Jade, fino al recente,
bellissimo, Killer Joe.
Quello che rende quest’autobiografia appassionante come un romanzo, almeno per me, è l’impasto tra informazione tecnica, aneddoto, commento puntuto dell’autore. Una chicca per chi ama gran parte dei suoi
film anche per gli eccessi che contengono, una lettura piacevole per il
resto del mondo.
lunedì 2 dicembre 2013
Low winter sun, c’è del marcio a Detroit
La città dell’auto, con i suoi fumi, i suoi quartieri
sgangherati, i pub malfamati. Non so se sia uno spaccato realistico, ma a parte
gli uffici della Polizia vediamo questo di quella città. Una Detroit che fa da
sfondo agli affari sporchi di alcuni poliziotti che hanno perso la bussola e non
sanno bene da che parte stare.
Tra questi ce ne sono due (Mark Strong e Lennie James, bravissimo) che hanno
risolto a modo loro una questione con il collega più marcio di tutti: l’hanno
annegato in un lavandino, legato con le manette alla sua auto e gettato nel
fiume, simulando il suicidio. Peccato che quando lo ripescano, con grande
stupore di tutti, si scopra che nel bagagliaio c’è anche un cadavere fatto a
pezzi, di cui i due ignoravano l’esistenza. E gli affari interni già ronzano
attorno…
Low winter sun è partito da tre puntate su Fox Crime e
promette bene. Le atmosfere sono fredde e taglienti come il “basso sole d’inverno”, i personaggi tutti apparentemente grigi, nel
senso che non è tutto bianco e tutto nero, e non è detto che siano tutti da
buttare via, il plot sembra (è ancora presto per dare un giudizio più completo)
accattivante e, come spesso accade nelle serie TV moderne non
autoconclusive, foriero di sviluppi che
si allargheranno sempre di più.
sabato 23 novembre 2013
Sherlock Holmes è un ex tossico
E’ quello che ci presenta
Elementary, serie appena cominciata su Fox Crime, una versione aggiornata del
classico della letteratura gialla, dove l’investigatore (Jonny Lee Miller) è
un figlio di papà in cura di disintossicazione e il dottor Watson è una
dottoressa (Lucy Liu), ex chirurgo radiato per un errore che ha portato alla
morte di un paziente.
Anche la location si sposta,
dall’Inghilterra siamo a Manhattan, e i nostri sono ritratti nella loro
quotidianità precaria, la casa in condivisione (ma solo quella, almeno per il
momento), gli affetti irrisolti di lei, il sesso a consumo di lui. In mezzo,
l’immancabile consulenza di Sherlock per arrivare là dove la mente poliziesca
non arriva.
I primi episodi raccontano di
mariti traditori, manager senza scrupoli, ladri di bambini. Caratteri tipici
del crime, fungono da pretesto per innescare le abilità deduttive del Nostro.
Confesso l’iniziale scetticismo,
ma lo continuo a guardare perché i protagonisti sono simpatici, l’upload
all’epoca postmoderna è garbato, le indagini si dipanano veloci, e pazienza se
lo strapotere logico di Holmes mette tutto troppo in secondo piano e la
soluzione sembra arrivare perché la puntata sta per concludersi.
Un divertimento innocuo.
giovedì 3 ottobre 2013
Megaspot
E' arrivata. La versione cartacea.
(la copertina, sì)
Visto che per quanto sia innovativo, l'ebook è ancora ad accessibilità ridotta per molte persone, mi sono attivato per realizzare una versione cartacea. Ringrazio "Madeinbook" per il supporto e per ciò che hanno prodotto.
Ora dunque Eredità inattesa è anche un oggetto concreto, con il suo "peso", il suo profumo delle pagine, un libro sfogliabile. Distribuito da me personalmente, dai principali store online e, spero presto, in selezionate librerie.
(la copertina, sì)
Visto che per quanto sia innovativo, l'ebook è ancora ad accessibilità ridotta per molte persone, mi sono attivato per realizzare una versione cartacea. Ringrazio "Madeinbook" per il supporto e per ciò che hanno prodotto.
Ora dunque Eredità inattesa è anche un oggetto concreto, con il suo "peso", il suo profumo delle pagine, un libro sfogliabile. Distribuito da me personalmente, dai principali store online e, spero presto, in selezionate librerie.
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sabato 28 settembre 2013
Attenti al tedesco!
Leggendo dell’uscita del suo prossimo romanzo, mi torna in
mente una lettura notevole fatta un annetto fa. Il penultimo romanzo di un
autore tedesco con le palle
Questa è roba buona. Roba forte. Per lettori non impressionabili. Una trama con due binari: su uno c’è un poliziotto che lotta contro il tempo per trovare un serial killer che gli ha ucciso la moglie e rapito il figlio, quindi per ritrovare suo figlio, possibilmente vivo. Sull’altro c’è Alina, una fisioterapista non vedente, che per ragioni professionali incrocia il suo destino con quello di un altro serial killer, elegante quanto sadico, che ama fare strani giochetti con gli occhi delle sue vittime. Ovvio che i binari si intersecheranno in una escalation direi “psicopatologica”. La bontà di questo psicothriller sta indubbiamente nella scrittura precisa e veloce, ma soprattutto nel valore aggiunto della prevalente tensione psicologica, che è la vera struttura portante di questo lavoro, non tanto il plot quanto la sua allucinata realizzazione. Da leggere per gli appassionati del genere.
martedì 17 settembre 2013
Maestro Grangé
L’imminente uscita del nuovo
romanzo “Il respiro della cenere”, diffusa in rete, è l’occasione per fare
salti di gioia. Jean Christophe Grangé è il mio scrittore di thriller preferito
perché, per quanto mi riguarda, è unico nel genere. I suoi libri hanno una
marcia in più, per varie ragioni: lui è il migliore per creazione degli
intrecci, è il più documentato, non ha paura a percorrere i binari della
tensione e a schiacciare l’acceleratore della violenza e del macabro.
Le svolte narrative, i
depistaggi, i colpi di scena sono sempre dietro l’angolo, a volte all’eccesso,
come nell’ultimo Amnesia, cui avrebbe giovato una identità in meno per il
protagonista e quindi una sforbiciata di pagine (adesso corro un po’, magari
presenterò alcuni dei suoi romanzi). Però sfido altri a costruire un intreccio sorprendente
come La linea nera, forse il suo capolavoro, o a gestire le divagazioni
diaboliche e i mille rivoli di una trama come quella de Il giuramento.
Le trame, già: di queste si può
dire poco più che la sinossi, sennò è tutto uno spoiler. Dei suoi personaggi si
può dire che non si possono odiare più di tanto, oppure affezionarvisi pericolosamente,
perché ogni romanzo ha un protagonista diverso. Segno chiarissimo che JCG non
ha bisogno di fidelizzare il pubblico con un personaggio, lo fa con le trame. Poco
romanticismo, sesso d’ordinanza, i suoi personaggi sono sì alle prese con
demoni interiori che saranno sconfitti solo attraverso la prova (e questo è un
classico) ma quello conta è proprio la prova, il personaggio è il mezzo per
veicolare il plot e i suoi virtuosismi stilistici. A presto dunque, con "Il
respiro della cenere”…
venerdì 13 settembre 2013
Altro che HD, la paura rende meglio in Super8
Passato al Fright Fest 2012, per certi versi simile a The Conjuring, merita attenzione anche questo film. Ufficialmente niente di nuovo, compresa la presenza prezzemolo di Ethan Hawke ormai avvezzo a film di genere, è una pellicola che scorrazza allegramente lungo sentieri consolidati del cinema de paura, ma a mio parere ha qualcosa che lascia il segno.
La storia, santo cielo, è sempre quella: c’è una famigliola che si trasferisce in una bella casa fuori dal casino della città, aria buona e gente alla mano
Lui (il nostro) è uno scrittore alla Lucarelli, che ha fatto successo con un libro su un caso di cronaca nera. Un po’ per riprovarci, un po’ perché è al verde, pensa di scrivere un altro libro del genere, e siccome da bravo cronista che si vuole documentare bene vuol essere sempre sul pezzo, ha la brillante idea di andare a vivere proprio nella casa dove è avvenuto un fatto di sangue. Ovviamente all’insaputa della moglie e tanto meno della figlioletta.
Vi sono venuti in mente mille altri film? Esatto.
Qui però succede qualcosa, per il bene del film. Naturale che la permanenza in quella casa si rivelerà molto dannosa per la famigliola, ma ciò a causa di uno specifico elemento: in soffitta lo scrittore trova una serie di filmini Super 8 che mostrano delitti del passato, sempre a base di famiglie sterminate, come quella di lui è andato ad occupare la casa. Chi li ha girati? Chi vuole lasciargli un messaggio, e perché? Lo scopriremo solo vedendo con lui quei filmini. E qui sta il bello del film. Un po’ casa stregata, un po’ found footage, il regista Scott Derrikson ci costringe a vedere e rivedere quei filmati, ossessivamente, siamo lì con Ethan Hawke nel suo studio buio, e questi Super 8 per quanto mi riguarda sono davvero inquietanti, a cominciare da quello che apre il film a mo’ di preview, tanto per far capire a che cosa andiamo incontro, mostrando un’allegra impiccagione multipla (si trova su Youtube).
Ovvio che oltre a essere il marchio dell’intera operazione, quei filmati conterranno anche la soluzione del caso, ma questo importa poco. Ethan Hawke che guarda e riguarda più e più volte quei filmati, nel tentativo di condurre la sua personale indagine, costringe lo spettatore a presenziare con lui a quelle sinistre visioni. A lui, cioè a noi, la scelta se guardare o no. A parte il discorso latente sull’effetto negativo di visioni violente, che lascio agli studiosi ma che si coglie, Sinister resta un film di genere che crea un’inquietudine asimmetrica, tutta giocata sul pezzo forte che sono questi maledetti filmini amatoriali. Mentre in The conjuring la tensione è una condizione innescata fin dall’inizio, qui si va per alti e bassi, momenti di latitanza prima di picchi di emotività violenta. A ben vedere la trama è secondaria, le prove degli attori pure, tutto ruota intorno al fascino macabro e ipnotico del contenuto dei filmini. Con un paio di classici colpi per saltare sulla sedia che possono sorprendere anche lo spettatore più disincantato.
Il finale è il punto debole del film. Dopo la rivelazione che esplicita il segreto dei Super 8, c’è uno showdown, anche questo non nuovo, che accenna ad una serie di conseguenze narrative che costituirebbero materiale per un altro film. È un po’ come se Sinister fosse un film e mezzo: il primo fino alla rivelazione, più un altro che comincia da lì ma si interrompe frettolosamente.
Ma un film e mezzo è sempre meglio di un mezzo film.
La storia, santo cielo, è sempre quella: c’è una famigliola che si trasferisce in una bella casa fuori dal casino della città, aria buona e gente alla mano
Lui (il nostro) è uno scrittore alla Lucarelli, che ha fatto successo con un libro su un caso di cronaca nera. Un po’ per riprovarci, un po’ perché è al verde, pensa di scrivere un altro libro del genere, e siccome da bravo cronista che si vuole documentare bene vuol essere sempre sul pezzo, ha la brillante idea di andare a vivere proprio nella casa dove è avvenuto un fatto di sangue. Ovviamente all’insaputa della moglie e tanto meno della figlioletta.
Vi sono venuti in mente mille altri film? Esatto.
Qui però succede qualcosa, per il bene del film. Naturale che la permanenza in quella casa si rivelerà molto dannosa per la famigliola, ma ciò a causa di uno specifico elemento: in soffitta lo scrittore trova una serie di filmini Super 8 che mostrano delitti del passato, sempre a base di famiglie sterminate, come quella di lui è andato ad occupare la casa. Chi li ha girati? Chi vuole lasciargli un messaggio, e perché? Lo scopriremo solo vedendo con lui quei filmini. E qui sta il bello del film. Un po’ casa stregata, un po’ found footage, il regista Scott Derrikson ci costringe a vedere e rivedere quei filmati, ossessivamente, siamo lì con Ethan Hawke nel suo studio buio, e questi Super 8 per quanto mi riguarda sono davvero inquietanti, a cominciare da quello che apre il film a mo’ di preview, tanto per far capire a che cosa andiamo incontro, mostrando un’allegra impiccagione multipla (si trova su Youtube).
Ovvio che oltre a essere il marchio dell’intera operazione, quei filmati conterranno anche la soluzione del caso, ma questo importa poco. Ethan Hawke che guarda e riguarda più e più volte quei filmati, nel tentativo di condurre la sua personale indagine, costringe lo spettatore a presenziare con lui a quelle sinistre visioni. A lui, cioè a noi, la scelta se guardare o no. A parte il discorso latente sull’effetto negativo di visioni violente, che lascio agli studiosi ma che si coglie, Sinister resta un film di genere che crea un’inquietudine asimmetrica, tutta giocata sul pezzo forte che sono questi maledetti filmini amatoriali. Mentre in The conjuring la tensione è una condizione innescata fin dall’inizio, qui si va per alti e bassi, momenti di latitanza prima di picchi di emotività violenta. A ben vedere la trama è secondaria, le prove degli attori pure, tutto ruota intorno al fascino macabro e ipnotico del contenuto dei filmini. Con un paio di classici colpi per saltare sulla sedia che possono sorprendere anche lo spettatore più disincantato.
Il finale è il punto debole del film. Dopo la rivelazione che esplicita il segreto dei Super 8, c’è uno showdown, anche questo non nuovo, che accenna ad una serie di conseguenze narrative che costituirebbero materiale per un altro film. È un po’ come se Sinister fosse un film e mezzo: il primo fino alla rivelazione, più un altro che comincia da lì ma si interrompe frettolosamente.
Ma un film e mezzo è sempre meglio di un mezzo film.
giovedì 5 settembre 2013
The conjuring, l’evocazione di classici dell’orrore
E’ stato il caso cinematografico dell’estate americana,
costato 20 milioni di dollari ne ha incassati oltre 130 solo negli USA. Cosa
c’è dietro un successo del genere?
James Wan è un bravo regista. Non sempre gli riescono
genialate come Saw, anzi solo quella gli è riuscita, però inanella una serie di
film interessanti e acquista la fama di uno che fa le nozze con i fichi secchi.
Pochi soldi di budget si trasformano in manna per i produttori. Quindi tutto
nella norma, anche stavolta è andata così. Qual è allora il tocco magico di
James Wan? Probabilmente il fatto che riesca a sguazzare nel già visto con un
tocco che, al tempo stesso, è personale ma non autoriale. Riesce a prendere
vicende risapute, di vendetta
o di terrore, rimescola gli ingredienti di modo che la minestra non sembra
riscaldata, serve il tutto con una buona dose di tecnica e di ritmo e il gioco
è fatto. Lo aveva appena fatto con Insidious (che però non è
eccezionale, anzi), lo fa meglio con L’evocazione, che è Insidious più
l’Esorcista più una serie di riferimenti a classici dell’orrore, fino
addirittura a Gli uccelli
La storia. Rhode Island, 1971. La tranquilla famiglia
Perron, padre madre e cinque figlie, va a vivere in una tranquilla casa
inquietante in una tranquilla località sperduta in riva ad un lago.
Tempo di finire il trasloco e, attenzione, la madre si
accorge che gli orologi della casa si fermano alle 3,07. E’ solo l’inizio di un
incubo fatto di tutto il repertorio del genere, ovvero porte che sbattono,
armadi che si aprono da soli, scricchiolii vari, quadri che cadono. Vogliamo
metterci anche il classico scantinato di cui tutti ignoravano l’esistenza? Ma
sì, dai. E già che ci siamo mettiamoci pure la componente bambina sonnambula (i
bambini sono imprescindibilmente morbosi in un horror, no?)
Fine prima parte. A questo punto i nervi della nostra
famigliola (e anche di qualche spettatore, ma su questo ci tornerò) sono già saltati.
È tempo allora di affidarsi ai servigi dei coniugi Warren, di professione
indagatori dell’incubo, a metà strada tra ghostbusters e esorcisti senza
patentino vaticano. I due, che tengono conferenze sui loro casi più importanti,
accettano di dare un’occhiata. Lei, soprattutto, che ha poteri extrasensoriali.
E quello che vedrà non sarà affatto piacevole.
Prima parte: casa infestata con tutti i trucchi del genere.
Seconda parte: l’esorcista con tutti gli ammennicoli.
La fusione di queste due componenti è il film di cui sto
scrivendo.
Però la miscela è fatta assai bene. E’ questo che lo eleva
sopra la media degli horror analoghi, anche come spaventi.
Un ottimo motivo per aprire la sezione “cinema per non
dormire” con questo film, in cui la paura non è tanto (non è solo) fatta di
colpi da saltare sulla sedia, che pure ci sono ma senza esagerare, quanto
piuttosto è creata dall’atmosfera. E qui è bravo il nostro James Wan, che non
si accontenta dei trucchetti ma gira bene, coltiva la tensione, a volte la fa
esplodere altre volte si ferma un secondo prima che ci aspettiamo che esploda.
Gioca insomma con lo spettatore, gli dice “hai voluto vedere ‘sta roba? Adesso
te la bevi tutta”. Ci fa vivere con la famiglia Perron, ci fa partecipi del
loro dramma, ci fa girare per la casa insieme agli attori. E quando arriva la
resa dei conti con lo spirito maligno, piazza un finale con esorcismo che, per
me, è stata la parte davvero inquietante del film. Molto tosta e senza momenti
di alleggerimento, come tutto il film fino a quel momento.
domenica 1 settembre 2013
Un (meritato) caso letterario
L’ho preso con un po’ di diffidenza, un po’ perché i casi editoriali di solito mi puzzano di artefatto, un po’ per la mole (770 pagine) e un po’ perché la trama sintetica non mi andava molto a genio.
Invece ho fatto bene ad acquistarlo. Eccome. E’ la prima volta che mi sento di condividere parola per parola i commenti della stampa estera riportati sulla quarta di copertina. Mi tocca essere d’accordo con i francesi, guarda un po’.La verità è che la Verità sul caso…è un libro geniale. Punto.
1975. Nell’amena località di Aurora, New Hampshire, scompare una ragazzina di quindici anni, Nola Kellergan, benvoluta da tutti tranne che (forse) dalla sua famiglia.
2008. A New York Marcus Goldman, giovane scrittore che ha sfondato col suo primo libro, si trova in difficoltà: non ha la più pallida idea di come onorare il contratto con la sua casa editrice. Il suo secondo romanzo deve essere consegnato di lì a poco, ma lui soffre del blocco dello scrittore. Sarà il ritrovamento del corpo di Nola nel giardino della villa del suo mentore e maestro, Harry Quebert, a rimescolare le carte del secondo libro di Marcus.
Quello che ho scritto da “1975” fin qui è la mia libera rielaborazione della trama che non mi prende più di tanto di cui ho detto poco sopra. Il bello è come si svolge questa trama.
Dal momento in cui siamo messi a conoscenza dell’antefatto (la scomparsa di Nola e un cadavere mai ritrovato per 33 anni, dunque un giallo insoluto, secondo il principio “nessun cadavere, nessun delitto”), il giovane scrittore svizzero benedetto da chissà quale illuminazione intesse una trama che a ben vedere non procede per sviluppi successivi dell’azione, ma ruota sempre intorno allo stesso fatto, aggiungendo di volta in volta nuovi particolari; il ritrovamento del corpo della ragazzina conduce Marcus, nel tentativo di salvare il suo amico e maestro Harry Quebert, a riaprire un’indagine abbandonata 33 anni prima, il delitto non è avvenuto oggi, per cui non si può che girare attorno a una questione cristallizzata. Il protagonista-detective non procede linearmente in avanti nel tempo, il suo tempo (attuale) non è quello dell’azione (passata). Procede quindi per cerchi concentrici su ciò che è avvenuto ad Aurora la notte del 30 agosto 1975, e lo fa da un lato cercando di capire la vera natura del rapporto tra Nola e Harry e dall’altro interrogando i testimoni di allora. Superfluo dire che le persone riveleranno una natura diversa da quella che la comunità attribuiva loro, e che vecchie ruggini e segreti inconfessabili verranno portati alla luce.
Già questo mi basta, il giallo da cold case funziona bene, ma non è sufficiente a rappresentare la qualità e la complessità di questo sorprendente romanzo. Anche perché a ben vedere, almeno procedendo per esclusione, il nome dell’assassino lo si indovina. Non è questo. Perché questo non è un semplice giallo. E’ molto di più.
E’ una carrellata di personaggi davvero ben scritti, alcuni davvero divertenti.
E’, almeno nella prima parte, una storia d’amore, un amore proibito.Ed è un gioco metaletterario, il vecchio trucco del romanzo nel romanzo (Goldman, il protagonista, deve pur sempre scrivere un libro per il suo editore), è un discorso sulla scrittura, con un alcuni consigli che il maestro Harry dà al suo allievo Marcus.
E la vera genialata risiede tra l’ultima pagina e quella dei ringraziamenti. I ringraziamenti, sì.
A quel punto ho lasciato cadere il tomo e ho battuto le mani, per applaudire.
domenica 18 agosto 2013
"The bridge", l'elogio del doppio
Su Fox Crime sono state trasmesse
le prime quattro puntate, prima della pausa estiva. E’una serie americana
remake di una nordica (“Bron”), che ha un incipit molto interessante: su un
ponte al confine tra Stati Uniti e Messico viene ritrovato il cadavere di una
giudice che si occupava di immigrazione clandestina. Sul posto arrivano una
detective americana, Sonya Cross, interpretata da Diane Kruger, e uno
messicano, Marco Ruiz (Demian Bichir). Fanno una macabra scoperta: il cadavere
è tagliato in due all’altezza del bacino. Meglio ancora: le due metà
appartengono a due persone diverse. Quella superiore è della giudice, mentre la
parte inferiore è di una giovane messicana scomparsa.
Fatta la necessaria premessa di
trama, con questo espediente un po’ horror per acchiappare il pubblico dalla
prima puntata, vengo al senso del post. Perché in The Bridge tutto è giocato
sul filo del doppio.
Fin dal titolo. Il ponte
rappresenta il collegamento tra due stati, o meglio due mondi, gli USA e il
Messico, le cui differenze culturali e di usi e costumi sono continuamente
sottolineate dalle parole e dall’agire dei personaggi.
I personaggi, già: lei americana
e lui messicano sembrano una coppia da buddy movie, che dopo l’iniziale
diffidenza per non dire ostilità porterà ad una maggiore collaborazione (fino a
qual punto lo scopriremo), come da cliché.
Ma il bello è che i due
protagonisti sono a loro volta dei doppi: Sonya Nord è glaciale, maniacale sul
lavoro, sembra fidarsi solo del suo capo, apparentemente inadatta alle
relazioni, capace di entrare in locale, addocchiare un macho e chiedergli
direttamente se vuole fare sesso con lei.
Però viene lanciato un sassolino
nello stagno del suo passato: qualcosa che ha a che fare con la scomparsa di
una sorella e con dei cavalli. E’ l’unico momento in cui si lascia andare, in
presenza del suo fido capo, è il momento in cui la scorza si incrina e una lacrima
scioglie il suo ghiaccio. Cosa sarà questo trauma del passato ce lo diranno le
prossime puntate.Anche il messicano non è monocolore: è legato alla famiglia, si consulta spesso con la moglie, che sta per dargli un altro figlio, ma non resiste al fascino di Charlotte (Annabeth Gish), moglie di un proprietario terriero americano che era solito fare la spola tra il Texas e il Messico, per motivi non proprio legali.
A ben vedere, è doppio anche
l’incipit, perché sul ponte del ritrovamento dei cadaveri dimezzati passa anche
il destino di Charlotte e di suo marito, infartuato su un’ambulanza proveniente
dal Messico che Sonya non vuol far passare per non contaminare la scena del
crimine e Marco si.
Anche Charlotte deve fare i conti
con la doppia vita di suo marito.Quindi su quel ponte parte anche una doppia traccia narrativa: quella dei cadaveri a metà e quella dei traffici dell’infartuato.
Le prime quattro puntate mi hanno
fatto una buona impressione. L’intreccio fa presagire qualcosa di complesso ma
non confuso, il tema del doppio, a me caro e caro agli sceneggiatori di gialli
e noir, frequentato quasi sempre in chiave psicologica da Hitchcock in poi, è
sapientemente incastonato in una trama da thriller solido. L’ambientazione di
frontiera fa sempre un po’ western, il calore, il sudore e la fisicità di certi
personaggi e certi luoghi conferiscono al tutto un atmosfera un po’ malata e
sul chi va là. Alle prossime puntate, dunque…
giovedì 15 agosto 2013
Perchè questo blog
Dicono che un blog serva a
raccontare di sé. Con il rischio di essere autoreferenziali. Io non vorrei che
fosse così. Ecco perché ho scelto di aprire un blog “settoriale”, che non
racconta direttamente di me, ma di una parte dei miei interessi. E sottolineo una
parte.
Chi mi conosce sa che coltivo
molte passioni. Un blog che mi rappresenti in toto, una specie di diario
universale dei miei pensieri incasinati, probabilmente sarebbe per me
ingestibile e per il resto del mondo illeggibile.
Non ne vedo la necessità.
Per questo ho scelto di limitarmi
a una parte di me. Quella che si interessa di letteratura, cinema e visioni in
generale.
Di più: in questo ambito, mi
limito a pochi generi, ben precisi.
Il giallo, il thriller, l’horror.
Vorrei che questo blog fosse uno
spazio, per me e per chi vorrà accomodarsi, per commentare quello che colpisce
di più in questi generi. Ciò che aggiunge qualcosa, nel bene e nel male.
Ecco perché colpo di scena
.
In senso lato. Un colpo di scena
è un romanzo che sorprende e non dà tregua, un film che lascia il segno, ma
anche che passi una settimana senza che Camilleri abbia pubblicato un libro
(non voglio tirargliela, sia chiaro!).
Sulla sinistra della pagina
troverete i miei contatti e i miei link, rappresentati da siti o blog che
frequento e che ritengo utili per le tematiche di cui sopra, in un elenco
aggiornabile.
Sulla destra invece le pagine
principali.
Libri e libertà vuole
essere, nelle intenzioni, lo spazio più frequentato. Dove mi permetterò di
postare recensioni (anche negative, ovvio), ai romanzi più venduti così come alle
opere di sconosciuti, magari autoprodotti. Non è escluso che si discuterà anche
di tutto ciò che ruota intorno al mondo della letteratura, compreso le nuove
forme di editoria elettronica. Non a caso, uno dei miei link è a The incipit,
che rappresenta un interessante esperimento, in cui anche il sottoscritto si è
cimentato, di comporre racconti online le cui svolte narrative sono votate dai
lettori.
Le uniche opere di cui non mi
occuperò sono quelle finite nel tunnel dell’editoria a pagamento. Le tralascio per
ragioni, diciamo, etiche.
Cinema per non dormire vuole
mettere in risalto film di genere che abbiano qualche elemento di interesse (colpo
di scena, ricordate?). Anche qui: non è detto che non si parli male di un
film. Esistono pellicole, tipo Tulpa di Zampaglione, che hanno grandissimi
spunti di interesse, per varie ragioni, ma che nel complesso non si meritano
certo 10 come voto.
Serie TV “serie”. Penso
che la scelta del titolo per questa pagina sia indicativa. Non sarà la sezione
principale del blog, almeno all’inizio, ma se sono stato chiaro sul filo
conduttore di questo sito, immaginerete cosa si intenda con l’aggettivo serie.
Concludono la sezione destra del
blog due pagine prettamente personali (qui sì che sono autoreferenziale, concedetemelo!),
in quanto dedicate a due miei lavori attualmente in vendita.
Il contenuto misterioso è un
racconto molto particolare, si legge in mezz’ora al prezzo di un caffè.
Eredità inattesa è il mio primo
romanzo, di cui vado fiero. Una storia che mi frullava in testa da un bel po’,
fino a quando due estati fa ha iniziato a scendere sui tasti del computer. E
soprattutto, pochi mesi fa, è piaciuto all’editore ePubblica.
Buona navigazione e grazie se
vorrete partecipare ad ogni colpo di scena!
mercoledì 14 agosto 2013
L’ultimo Lucarelli, ovvero il sogno di leggere un buon libro.
Mi dispiace scrivere una recensione del genere. Non volevo proprio. Però non posso esimermi.
Non nutrivo eccessive aspettative per Il sogno di volare, l’ultimo romanzo di Carlo Lucarelli, mi bastava una semplice e piacevole lettura estiva. Non chiedevo un page turner, mi bastava un buon passatempo. Invece non è così.
Lucarelli è un bravo scrittore, personalmente non è tra i miei preferiti (infatti non ho letto tutto di lui, lo confesso senza problemi), ma credo che possa a buon diritto definirsi “giallista”, come fa lui stesso nella chiosa finale del libro.
Il problema è che stavolta non ne azzecca una. Vediamo di analizzare un po’ meglio questo problema, allora.
Innanzitutto, la trama. Non pretendo le evoluzioni di un Grangé, di cui sicuramente dirò su questo blog, però santo cielo un po’ di costruzione sì, Lucarelli! No no no…qui ci sono pochi omicidi, di un tizio che sbrana letteralmente le vittime, a cui poi strappa il cuore a morsi. Un po’ di classico brancolare nel buio, una pista che si materializza grazie all’ascolto di un file audio su un blog (guarda il caso, alle volte…solo che io non sono ancora un serial killer), una persona erroneamente messa in mezzo, poi la polizia, in coabitazione con i carabinieri più per vicende sentimentali della protagonista che per spirito di collaborazione, individua colui che potrebbe essere il Cane, come con grande fantasia viene ribattezzato il nostro crudele assassino.
Praticamente è più lungo il riassunto che ne ho fatto io che la trama stessa. Per tacere della motivazione finale, che ovviamente non sfioro nemmeno. Basti sapere che viene un po’ buttata lì man mano che le indagini (…) avanzano, scordatevi invece un bel confronto finale serrato con l’assassino circa le sue intenzioni e su ciò che lo anima (è uno spoiler? Non me ne sono accorto e comunque non rivela un cazzo).
Poi i personaggi. Grazia Negro esisteva già in Almost Blue, qui viene aggiornata con le sue problematiche sentimentali e materne. I personaggi di contorno, rappresentanti delle forze dell’ordine, vengono identificati dal portare sempre un sigaro spento in bocca o dal ripetere incessantemente “porco can”. Un po’ poco, secondo me.
Un’altra cosa che non mi è piaciuta è che per paginate intere non si capisce se si stia leggendo un presunto thriller o un più sicuro harmony. E qui intervengono le già citate paturnie sentimentali della protagonista, sospesa tra il suo ragazzo non vedente con cui qualcosa non funziona più, e una storia forse nascente con un collega carabiniere, Pierluigi, un rosso dai modi gentili. Tutto interessante, grazie, peccato che non me ne freghi una mazza. Se il livello di sbrodolamento sentimentale rimane ben confinato è tutto ok, altrimenti mi permetto di ricordare all’Autore che io volevo leggere un giallo.
Vogliamo parlare degli omicidi? Qui Lucarelli si supera, perché:
- non descrive in diretta la coreografia degli omicidi
- non narra nemmeno del ritrovamento dei cadaveri, se non nel caso dell’ultimo omicidio.
Succede quindi che saltiamo a piè pari dal momento precedente l’omicidio alle successive indagini. Boh…
Ultima cosa, i deliranti deliri dell’assassino. Cito testualmente, da p. 32:
“arrivo arrivo arrivo adesso arrivo tranquilli che arrivo ci penso io a voi brutti stronzi maledetti che non capite un cazzo non avete mai capito un cazzo e mai lo capirete mai”
E avanti così per altre venti righe. Se questo è l’immancabile delirio dell’assassino, fondamentale perché si crei una malsana empatia tra il lettore e colui che con le sue gesta dovrebbe tenerlo sveglio, non ci siamo proprio, mi pare.
In conclusione, non so se si è capito: Il sogno di volare non mi è piaciuto proprio. Non so se è stato composto per onorare una scadenza con Einaudi, o se è semplicemente stato scritto con il lato sinistro del cuore. Quello che è certo è che mi fa rivalutare il Lucarelli scrittore di racconti o conduttore di Blu Notte.
Non nutrivo eccessive aspettative per Il sogno di volare, l’ultimo romanzo di Carlo Lucarelli, mi bastava una semplice e piacevole lettura estiva. Non chiedevo un page turner, mi bastava un buon passatempo. Invece non è così.
Lucarelli è un bravo scrittore, personalmente non è tra i miei preferiti (infatti non ho letto tutto di lui, lo confesso senza problemi), ma credo che possa a buon diritto definirsi “giallista”, come fa lui stesso nella chiosa finale del libro.
Il problema è che stavolta non ne azzecca una. Vediamo di analizzare un po’ meglio questo problema, allora.
Innanzitutto, la trama. Non pretendo le evoluzioni di un Grangé, di cui sicuramente dirò su questo blog, però santo cielo un po’ di costruzione sì, Lucarelli! No no no…qui ci sono pochi omicidi, di un tizio che sbrana letteralmente le vittime, a cui poi strappa il cuore a morsi. Un po’ di classico brancolare nel buio, una pista che si materializza grazie all’ascolto di un file audio su un blog (guarda il caso, alle volte…solo che io non sono ancora un serial killer), una persona erroneamente messa in mezzo, poi la polizia, in coabitazione con i carabinieri più per vicende sentimentali della protagonista che per spirito di collaborazione, individua colui che potrebbe essere il Cane, come con grande fantasia viene ribattezzato il nostro crudele assassino.
Praticamente è più lungo il riassunto che ne ho fatto io che la trama stessa. Per tacere della motivazione finale, che ovviamente non sfioro nemmeno. Basti sapere che viene un po’ buttata lì man mano che le indagini (…) avanzano, scordatevi invece un bel confronto finale serrato con l’assassino circa le sue intenzioni e su ciò che lo anima (è uno spoiler? Non me ne sono accorto e comunque non rivela un cazzo).
Poi i personaggi. Grazia Negro esisteva già in Almost Blue, qui viene aggiornata con le sue problematiche sentimentali e materne. I personaggi di contorno, rappresentanti delle forze dell’ordine, vengono identificati dal portare sempre un sigaro spento in bocca o dal ripetere incessantemente “porco can”. Un po’ poco, secondo me.
Un’altra cosa che non mi è piaciuta è che per paginate intere non si capisce se si stia leggendo un presunto thriller o un più sicuro harmony. E qui intervengono le già citate paturnie sentimentali della protagonista, sospesa tra il suo ragazzo non vedente con cui qualcosa non funziona più, e una storia forse nascente con un collega carabiniere, Pierluigi, un rosso dai modi gentili. Tutto interessante, grazie, peccato che non me ne freghi una mazza. Se il livello di sbrodolamento sentimentale rimane ben confinato è tutto ok, altrimenti mi permetto di ricordare all’Autore che io volevo leggere un giallo.
Vogliamo parlare degli omicidi? Qui Lucarelli si supera, perché:
- non descrive in diretta la coreografia degli omicidi
- non narra nemmeno del ritrovamento dei cadaveri, se non nel caso dell’ultimo omicidio.
Succede quindi che saltiamo a piè pari dal momento precedente l’omicidio alle successive indagini. Boh…
Ultima cosa, i deliranti deliri dell’assassino. Cito testualmente, da p. 32:
“arrivo arrivo arrivo adesso arrivo tranquilli che arrivo ci penso io a voi brutti stronzi maledetti che non capite un cazzo non avete mai capito un cazzo e mai lo capirete mai”
E avanti così per altre venti righe. Se questo è l’immancabile delirio dell’assassino, fondamentale perché si crei una malsana empatia tra il lettore e colui che con le sue gesta dovrebbe tenerlo sveglio, non ci siamo proprio, mi pare.
In conclusione, non so se si è capito: Il sogno di volare non mi è piaciuto proprio. Non so se è stato composto per onorare una scadenza con Einaudi, o se è semplicemente stato scritto con il lato sinistro del cuore. Quello che è certo è che mi fa rivalutare il Lucarelli scrittore di racconti o conduttore di Blu Notte.
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