sabato 28 settembre 2013

Attenti al tedesco!


Leggendo dell’uscita del suo prossimo romanzo, mi torna in mente una lettura notevole fatta un annetto fa. Il penultimo romanzo di un autore tedesco con le palle


Questa è roba buona. Roba forte. Per lettori non impressionabili. Una trama con due binari: su uno c’è un poliziotto che lotta contro il tempo per trovare un serial killer che gli ha ucciso la moglie e rapito il figlio, quindi per ritrovare suo figlio, possibilmente vivo. Sull’altro c’è Alina, una fisioterapista non vedente, che per ragioni professionali incrocia il suo destino con quello di un altro serial killer, elegante quanto sadico, che ama fare strani giochetti con gli occhi delle sue vittime. Ovvio che i binari si intersecheranno in una escalation direi “psicopatologica”. La bontà di questo psicothriller sta indubbiamente nella scrittura precisa e veloce, ma soprattutto nel valore aggiunto della prevalente tensione psicologica, che è la vera struttura portante di questo lavoro, non tanto il plot quanto la sua allucinata realizzazione. Da leggere per gli appassionati del genere.

martedì 17 settembre 2013

Maestro Grangé


L’imminente uscita del nuovo romanzo “Il respiro della cenere”, diffusa in rete, è l’occasione per fare salti di gioia. Jean Christophe Grangé è il mio scrittore di thriller preferito perché, per quanto mi riguarda, è unico nel genere. I suoi libri hanno una marcia in più, per varie ragioni: lui è il migliore per creazione degli intrecci, è il più documentato, non ha paura a percorrere i binari della tensione e a schiacciare l’acceleratore della violenza e del macabro.
 
 

Le svolte narrative, i depistaggi, i colpi di scena sono sempre dietro l’angolo, a volte all’eccesso, come nell’ultimo Amnesia, cui avrebbe giovato una identità in meno per il protagonista e quindi una sforbiciata di pagine (adesso corro un po’, magari presenterò alcuni dei suoi romanzi). Però sfido altri a costruire un intreccio sorprendente come La linea nera, forse il suo capolavoro, o a gestire le divagazioni diaboliche e i mille rivoli di una trama come quella de Il giuramento.

Le trame, già: di queste si può dire poco più che la sinossi, sennò è tutto uno spoiler. Dei suoi personaggi si può dire che non si possono odiare più di tanto, oppure affezionarvisi pericolosamente, perché ogni romanzo ha un protagonista diverso. Segno chiarissimo che JCG non ha bisogno di fidelizzare il pubblico con un personaggio, lo fa con le trame. Poco romanticismo, sesso d’ordinanza, i suoi personaggi sono sì alle prese con demoni interiori che saranno sconfitti solo attraverso la prova (e questo è un classico) ma quello conta è proprio la prova, il personaggio è il mezzo per veicolare il plot e i suoi virtuosismi stilistici. A presto dunque, con "Il respiro della cenere”…

venerdì 13 settembre 2013

Altro che HD, la paura rende meglio in Super8

Passato al Fright Fest 2012, per certi versi simile a The Conjuring, merita attenzione anche questo film. Ufficialmente niente di nuovo, compresa la presenza prezzemolo di Ethan Hawke ormai avvezzo a film di genere, è una pellicola che scorrazza allegramente lungo sentieri consolidati del cinema de paura, ma a mio parere ha qualcosa che lascia il segno.



La storia, santo cielo, è sempre quella: c’è una famigliola che si trasferisce in una bella casa fuori dal casino della città, aria buona e gente alla mano


Lui (il nostro) è uno scrittore alla Lucarelli, che ha fatto successo con un libro su un caso di cronaca nera. Un po’ per riprovarci, un po’ perché è al verde, pensa di scrivere un altro libro del genere, e siccome da bravo cronista che si vuole documentare bene vuol essere sempre sul pezzo, ha la brillante idea di andare a vivere proprio nella casa dove è avvenuto un fatto di sangue. Ovviamente all’insaputa della moglie e tanto meno della figlioletta.

Vi sono venuti in mente mille altri film? Esatto.

Qui però succede qualcosa, per il bene del film. Naturale che la permanenza in quella casa si rivelerà molto dannosa per la famigliola, ma ciò a causa di uno specifico elemento: in soffitta lo scrittore trova una serie di filmini Super 8 che mostrano delitti del passato, sempre a base di famiglie sterminate, come quella di lui è andato ad occupare la casa. Chi li ha girati? Chi vuole lasciargli un messaggio, e perché? Lo scopriremo solo vedendo con lui quei filmini. E qui sta il bello del film. Un po’ casa stregata, un po’ found footage, il regista Scott Derrikson ci costringe a vedere e rivedere quei filmati, ossessivamente, siamo lì con Ethan Hawke nel suo studio buio, e questi Super 8 per quanto mi riguarda sono davvero inquietanti, a cominciare da quello che apre il film a mo’ di preview, tanto per far capire a che cosa andiamo incontro, mostrando un’allegra impiccagione multipla (si trova su Youtube).
Ovvio che oltre a essere il marchio dell’intera operazione, quei filmati conterranno anche la soluzione del caso, ma questo importa poco. Ethan Hawke che guarda e riguarda più e più volte quei filmati, nel tentativo di condurre la sua personale indagine, costringe lo spettatore a presenziare con lui a quelle sinistre visioni. A lui, cioè a noi, la scelta se guardare o no. A parte il discorso latente sull’effetto negativo di visioni violente, che lascio agli studiosi ma che si coglie, Sinister resta un film di genere che crea un’inquietudine asimmetrica, tutta giocata sul pezzo forte che sono questi maledetti filmini amatoriali. Mentre in The conjuring la tensione è una condizione innescata fin dall’inizio, qui si va per alti e bassi, momenti di latitanza prima di picchi di emotività violenta. A ben vedere la trama è secondaria, le prove degli attori pure, tutto ruota intorno al fascino macabro e ipnotico del contenuto dei filmini. Con un paio di classici colpi per saltare sulla sedia che possono sorprendere anche lo spettatore più disincantato.

Il finale è il punto debole del film. Dopo la rivelazione che esplicita il segreto dei Super 8, c’è uno showdown, anche questo non nuovo, che accenna ad una serie di conseguenze narrative che costituirebbero materiale per un altro film. È un po’ come se Sinister fosse un film e mezzo: il primo fino alla rivelazione, più un altro che comincia da lì ma si interrompe frettolosamente.

Ma un film e mezzo è sempre meglio di un mezzo film.

giovedì 5 settembre 2013

The conjuring, l’evocazione di classici dell’orrore


E’ stato il caso cinematografico dell’estate americana, costato 20 milioni di dollari ne ha incassati oltre 130 solo negli USA. Cosa c’è dietro un successo del genere?

 
 
 
James Wan è un bravo regista. Non sempre gli riescono genialate come Saw, anzi solo quella gli è riuscita, però inanella una serie di film interessanti e acquista la fama di uno che fa le nozze con i fichi secchi. Pochi soldi di budget si trasformano in manna per i produttori. Quindi tutto nella norma, anche stavolta è andata così. Qual è allora il tocco magico di James Wan? Probabilmente il fatto che riesca a sguazzare nel già visto con un tocco che, al tempo stesso, è personale ma non autoriale. Riesce a prendere vicende risapute, di vendetta o di terrore, rimescola gli ingredienti di modo che la minestra non sembra riscaldata, serve il tutto con una buona dose di tecnica e di ritmo e il gioco è fatto. Lo aveva appena fatto con Insidious (che però non è eccezionale, anzi), lo fa meglio con L’evocazione, che è Insidious più l’Esorcista più una serie di riferimenti a classici dell’orrore, fino addirittura a Gli uccelli
 
 
La storia. Rhode Island, 1971. La tranquilla famiglia Perron, padre madre e cinque figlie, va a vivere in una tranquilla casa inquietante in una tranquilla località sperduta in riva ad un lago.
Tempo di finire il trasloco e, attenzione, la madre si accorge che gli orologi della casa si fermano alle 3,07. E’ solo l’inizio di un incubo fatto di tutto il repertorio del genere, ovvero porte che sbattono, armadi che si aprono da soli, scricchiolii vari, quadri che cadono. Vogliamo metterci anche il classico scantinato di cui tutti ignoravano l’esistenza? Ma sì, dai. E già che ci siamo mettiamoci pure la componente bambina sonnambula (i bambini sono imprescindibilmente morbosi in un horror, no?)
Fine prima parte. A questo punto i nervi della nostra famigliola (e anche di qualche spettatore, ma su questo ci tornerò) sono già saltati. È tempo allora di affidarsi ai servigi dei coniugi Warren, di professione indagatori dell’incubo, a metà strada tra ghostbusters e esorcisti senza patentino vaticano. I due, che tengono conferenze sui loro casi più importanti, accettano di dare un’occhiata. Lei, soprattutto, che ha poteri extrasensoriali. E quello che vedrà non sarà affatto piacevole.
Prima parte: casa infestata con tutti i trucchi del genere.
Seconda parte: l’esorcista con tutti gli ammennicoli.
La fusione di queste due componenti è il film di cui sto scrivendo.
Però la miscela è fatta assai bene. E’ questo che lo eleva sopra la media degli horror analoghi, anche come spaventi.
Un ottimo motivo per aprire la sezione “cinema per non dormire” con questo film, in cui la paura non è tanto (non è solo) fatta di colpi da saltare sulla sedia, che pure ci sono ma senza esagerare, quanto piuttosto è creata dall’atmosfera. E qui è bravo il nostro James Wan, che non si accontenta dei trucchetti ma gira bene, coltiva la tensione, a volte la fa esplodere altre volte si ferma un secondo prima che ci aspettiamo che esploda. Gioca insomma con lo spettatore, gli dice “hai voluto vedere ‘sta roba? Adesso te la bevi tutta”. Ci fa vivere con la famiglia Perron, ci fa partecipi del loro dramma, ci fa girare per la casa insieme agli attori. E quando arriva la resa dei conti con lo spirito maligno, piazza un finale con esorcismo che, per me, è stata la parte davvero inquietante del film. Molto tosta e senza momenti di alleggerimento, come tutto il film fino a quel momento. 

domenica 1 settembre 2013

Un (meritato) caso letterario

L’ho preso con un po’ di diffidenza, un po’ perché i casi editoriali di solito mi puzzano di artefatto, un po’ per la mole (770 pagine) e un po’ perché la trama sintetica non mi andava molto a genio.
Invece ho fatto bene ad acquistarlo. Eccome. E’ la prima volta che mi sento di condividere parola per parola i commenti della stampa estera riportati sulla quarta di copertina. Mi tocca essere d’accordo con i francesi, guarda un po’.
La verità è che la Verità sul caso…è un libro geniale. Punto.


1975. Nell’amena località di Aurora, New Hampshire, scompare una ragazzina di quindici anni, Nola Kellergan, benvoluta da tutti tranne che (forse) dalla sua famiglia.
2008. A New York Marcus Goldman, giovane scrittore che ha sfondato col suo primo libro, si trova in difficoltà: non ha la più pallida idea di come onorare il contratto con la sua casa editrice. Il suo secondo romanzo deve essere consegnato di lì a poco, ma lui soffre del blocco dello scrittore.
Sarà il ritrovamento del corpo di Nola nel giardino della villa del suo mentore e maestro, Harry Quebert, a rimescolare le carte del secondo libro di Marcus.

Quello che ho scritto da “1975” fin qui è la mia libera rielaborazione della trama che non mi prende più di tanto di cui ho detto poco sopra. Il bello è come si svolge questa trama.

Dal momento in cui siamo messi a conoscenza dell’antefatto (la scomparsa di Nola e un cadavere mai ritrovato per 33 anni, dunque un giallo insoluto, secondo il principio “nessun cadavere, nessun delitto”), il giovane scrittore svizzero benedetto da chissà quale illuminazione intesse una trama che a ben vedere non procede per sviluppi successivi dell’azione, ma ruota sempre intorno allo stesso fatto, aggiungendo di volta in volta nuovi particolari; il ritrovamento del corpo della ragazzina conduce Marcus, nel tentativo di salvare il suo amico e maestro Harry Quebert, a riaprire un’indagine abbandonata 33 anni prima, il delitto non è avvenuto oggi, per cui non si può che girare attorno a una questione cristallizzata. Il protagonista-detective non procede linearmente in avanti nel tempo, il suo tempo (attuale) non è quello dell’azione (passata). Procede quindi per cerchi concentrici su ciò che è avvenuto ad Aurora la notte del 30 agosto 1975, e lo fa da un lato cercando di capire la vera natura del rapporto tra Nola e Harry e dall’altro interrogando i testimoni di allora. Superfluo dire che le persone riveleranno una natura diversa da quella che la comunità attribuiva loro, e che vecchie ruggini e segreti inconfessabili verranno portati alla luce.

Già questo mi basta, il giallo da cold case funziona bene, ma non è sufficiente a rappresentare la qualità e la complessità di questo sorprendente romanzo. Anche perché a ben vedere, almeno procedendo per esclusione, il nome dell’assassino lo si indovina. Non è questo. Perché questo non è un semplice giallo. E’ molto di più.
E’ una carrellata di personaggi davvero ben scritti, alcuni davvero divertenti.
E’, almeno nella prima parte, una storia d’amore, un amore proibito.
Ed è un gioco metaletterario, il vecchio trucco del romanzo nel romanzo (Goldman, il protagonista, deve pur sempre scrivere un libro per il suo editore), è un discorso sulla scrittura, con un alcuni consigli che il maestro Harry dà al suo allievo Marcus.

E la vera genialata risiede tra l’ultima pagina e quella dei ringraziamenti. I ringraziamenti, sì.
A quel punto ho lasciato cadere il tomo e ho battuto le mani, per applaudire.